E adesso che siamo a urne chiuse e che è ormai il dado è tratto, ho proprio voglia di dire come la penso sulle riforme e su questo referendum, prima che siano noti gli esiti della consultazione.
Intanto partiamo dal merito. Innanzitutto, ci sono pezzi di questa riforma che non mi piacciono e altri pezzi che non mi dispiacciono affatto.
Per esempio, non mi dispiace la parte che si occupa di modificare il titolo V: non mi è mai piaciuta la virata in senso pseudo federalista della riforma del 2001.
Per contro, non mi piace il pasticcio mal riuscito del senato non elettivo, questione delle immunità, inclusa.
Soprattutto, non mi convince il passaggio ad una architettura in cui a legiferare sulla maggior parte delle materie, è una camera della quale il governo è diretta espressione.
Se almeno fino ad oggi la presenza di un Senato che poteva esprimere numeri un po’ diversi poteva agevolare una qualche forma di controllo parlamentare, con una camera unica, sostanzialmente simmetrica rispetto al governo, che può essere facilmente blindata a colpi di fiducia, addio ad ogni possibilità di controllo parlamentare.
Trovo una frescaccia voler giustificare la modifica sul presunto ping pong tra Camera e Senato: notoriamente, il parlamento italiano è uno dei legislatori più prolifici del mondo, e sicuramente il più produttivo d’Europa. Se non vi fidate, provate a smanettare in internet e troverete un bel po’ di statistiche sulla produzione legislativa mondiale.
E c’è un altro punto: già così circa il 90% delle leggi promulgate è di iniziativa governativa.
Se davvero rompe le scatole così tanto che un parlamento possa cercare di riflettere e dire la sua su una legge, eliminiamolo del tutto e non se ne parli più.
Ma la cosa che mi urta maggiormente di queste riforme è il metodo.
Lo so: uno dei refrain di questa massacrante campagna elettorale è stato quello di badare al merito della riforma.
È naturale: si è innescato una campagna di comunicazione per cui il voto al no era associato al sostegno a personaggi pessimi (Salvini per dirne uno); il voto al sì era associato al sostegno a personaggi altrettanto pessimi.
Per forza, dopo un po’ campagne nauseanti di questo tipo, scatta il bisogno di andare a capire la sostanza di questa riforma.
Però penso che la questione di come a questa riforma ci si sia arrivati e di come alla fine se uscirà, non possa essere nascosta sotto il tappeto.
Questa è una riforma approvata senza il raggiungimento della maggioranza qualificata (che è la ragione per cui noi cittadini siamo stati chiamati ad esprimerci).
È stata approvata anche con una serie di escamotage parlamentari (come l’uso del cosiddetto “canguro”) che di fatto hanno limitato il dibattito parlamentare.
Infine è stata approvata da un parlamento eletto sulla base di una norma dichiarata incostituzionale. Dunque, un parlamento che è più che lecito dubitare che possa rispecchiare in modo sufficientemente fedele il sentimento del corpo elettorale.
Io trovo che queste siano questioni enormi perché, se anche tutti convenissimo che richieda una profonda revisione (non semplici rammendi tecnici), la carta fondativa del Paese dovrebbe essere il frutto di un processo capace di raccogliere le istanze di una porzione largamente maggioritaria del Paese, e il risultato dovrebbe poter sopravvivere alla contingenza di una singola legislatura e proiettarsi nel tempo con lungimiranza ed inclusione,
Approvare una modifica profonda della Costituzione a colpi di maggioranza, possiamo fare tutti i sofismi che ci pare, ma resta sbagliato e pericoloso.
Ora però, come ne usciamo da una riforma partita a colpi di maggioranza, che di fatto ha visto spaccare il paese in modo profondo?
Ne usciamo che se anche la riforma dovesse essere bocciata dalle urne non si potrebbe fare a meno di considerare che una parte rilevante del corpo elettorale (la parte che ha votato sì) ha di fatto manifestato l’esigenza che la Costituzione venga cambiata ed attualizzata.
Se avessimo una classe dirigente sufficientemente responsabile e lungimirante, tutti comprenderebbero che questa potrebbe essere un’occasione per tornare ad aggregare il paese, intorno ad un progetto ampiamente condiviso.
Se avessimo un corpo elettorale sufficientemente maturo, tutti comprenderebbero che è tempo di smettere la casacca della fazione indossata fino ad oggi, e cominciare a ragionare in termini di crescita collettiva e di bene comune.